Dosso Pasò (2575m) tra Aprica e Val Belviso - disegno del 2 gennaio 2019 ITA only
Dedicato a Luca, compagno di escursioni in montagna e di vita, perchè a lui ho pensato un paio di settimane fa, mentre scrivevo questa poesia, dopo aver provato a disegnare quelle cime a me care sin dalla primissima infanzia. Con la speranza di ricalcare insieme, coi nostri occhi e i nostri passi, tante cime ancora, sulle Alpi e chissà dove altro. - Ritratto Montano Su e poi giu. Una traccia qui, una sfumatura più in basso. Il panorama si tuffa nei miei occhi attraversa il petto, e infine muove la mia mano... La mia mano! Burattina inconsapevole del mio animo travestito da artista! Accarezzo con lo sguardo quella silhouette di vette e crinali cosi fiera, ferma... ma in eterna evoluzione. Le nuvole corrono, rotolano, giocano Sfuggono alla staticità del mio scarabocchio Che non riesce certo a intrappolarle in quei goffi ed incerti tratti di grafite. Non é certo un talento quel che trova forma su questa carta e in questo momento ma soltanto la trascrizione spontanea dei miei sospiri leggeri esalazioni di gratitudine verso queste cime. - A.Mansi
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ITA then ENG, after the pictures - Nel mio girovagare tra libri e registrazioni su temi a me cari, mi sono imbattuto in una potente domanda seguita da un'affascinante ed articolata risposta. La domanda coinvolge un tormento che forse molti condivideranno, ovvero come conciliare la non verbalità di alcune esperienze (come la meditazione o la contemplazione) con il "mezzo" con cui questo tipo di strumenti ed insegnamenti arrivano a noi, ovvero le parole. La riposta é stata formulata, in un seminario, da una persona da un lato completamente immersa in questi temi e dall'altro molto attiva nel tradurre testi antichi e quindi nella scelta delle parole più adeguate per trasmettere concetti antichi da risvegliare oggi. Ho voluto mettere tutto per iscritto, perché dall'apparente complessità dell'argomento, esce un pensiero meravigliosamente semplice molto in linea con la mia idea di vita. -.-.-.-.-.-.-.-.-.-.- Domanda <<Come trovi un equilibrio nella tua ricerca, tra l'uso di linguistica e costrutti mentali e la conoscenza non-verbale della pratica?>> Risposta <<La risposta più onesta è che si tratta di uno sforzo ancora in corso. Tuttavia, non vedo questi due temi come disparati o appartenenti a sfere diverse. Una delle cose che mi ha sempre turbato dell'ambiente accademico occidentale, é l'idea dell'oggettività, l'idea che tu -lo studente- debba tenere una debita distanza dal soggetto che stai studiando, senza infettarlo coi tuoi pregiudizi, predilezioni, desideri o convinzioni, così da vederlo chiaramente e oggettivamente per quello che realmente è. E questa è una delle ragioni per cui non ho mai cercato di ottenere una laurea universitaria in alcunché, perché non mi piace quel tipo di ambiente, non voglio separarmi in quel modo, non voglio quella distanza esistenziale. Per me il coinvolgimento con quei testi, e parlo soprattutto dei vecchi testi Pali e anche di qualche testo Chàn in cinese, risiede nel voler entrare in un dialogo vivente con loro, voglio percepire che questi testi stanno realmente affrontando la mia condizione, mi parlano, mi mettono alla prova e mettono in gioco me stesso in modo da cambiare il modo in cui penso di vivere. E se provo a mettere in pratica queste strategie, quando torno a quei testi, mi appaiono cambiati. Per me la bellezza di queste cose molto semplici, come queste Quattro Nobili Verità, è che puoi tornare da loro e scoprire strati sempre più profondi di intuizione, perché sono una parte integrante della tua pratica. Se non avessi cercato di trasformare te stesso rifacendoti a quel che questi testi dicono, allora sì, probabilmente diverrebbero più o meno statici, sarebbero puri oggetti di interesse filologico, ma non ho intenzione di entrare in questo tipo di relazione con loro. Il mio approccio è, senza vergogna, soggettivo, sono interessato a come questi testi possano affrontare e cambiare una vita umana e quindi trovo che la mia pratica, diciamo quando sono in un ritiro di meditazione e provo a coltivare la concentrazione e la consapevolezza eccetera, sia la parte integrante di un dialogo in corso o di una conversazione con una tradizione che arriva a me con la mediazione di parole e testi. Sono ovviamente quel che si direbbe un "tipo intellettuale", non voglio farvi credere altrimenti, e sono spesso contrariato quando gruppi buddisti mostrano a priori un approccio anti-intellettuale ("non ho interesse per la teoria, voglio solo concentrarmi sulla pratica"). Uno degli episodi che mi ha reso chiaro questo aspetto, viene da molti anni fa, quando ancora studiavo in Svizzera in un monastero tibetano. Un vecchio Lama Mongolo stava insegnando un argomento molto asciutto, la logica buddista - posso garantire che si tratta di roba davvero noiosa, ovvero "come funziona il sillogismo" - e alla fine del corso un ragazzo disse: "Maestro, perché dobbiamo studiare tutta questa teoria? Perché non possiamo fare più pratica?" e la sua risposta fu "se davvero sapessi come studiare, allora staresti già praticando" e questo è quello che è rimasto in me, come un faro verso una visione più chiara. Per me lo studio è pratica. La pratica non è riducibile a qualcosa di puramente non verbale o non intellettuale. Se pensi alla parola pratica ("bhavana" é la parola Pali che meglio descriverebbe questo concetto), tutto l'Ottuplice sentiero dev'essere praticato, coltivato, dato alla luce, realizzato. Non si tratta di ridurre la pratica ad una cosa e contrapporre le altre parti della nostra esistenza ad essa. Al contrario, si tratta di estendere il concetto di pratica, per infondere e abbracciare tutti gli aspetti della nostra vita così che tutta la nostra vita diventi una pratica. E così diventiamo umani praticanti. Essere umani diventa la nostra pratica>> Pittura e meditazione - Nepal - 2018 Painting and meditation - Nepal - 2018 -.-.-.-.-.-.-.-.-.-.- ENG In my wandering through books and recordings on what I consider to be special subjects, I came across a powerful question followed by a fascinating and well-structured answer. The question deals with a struggle that many people might share, namely how do we "conciliate" the non-verbal nature of some experiences (such as meditation and contemplation) with the medium through which tools and teachings on these topics get to us, i.e. words. The answer comes from a seminar, and it comes from a person who is very much involved in these subjects and even in the thorough translation of ancient related texts, to find the most suitable words to express old thoughts to be awakened today. I wanted to write all this down, as from the apparent complexity a wonderfully simple thought rises putting in words my own idea of life. -.-.-.-.-.-.-.-.-.-.- Question
<<How do you balance your work using linguistic and mental constructs with the non-verbal knowing of your practice>> Answer <<The honest answer is that this an ongoing struggle. But I don't see the two as somehow operating in disparate or different spheres. One of the things that has always troubled me about the western academy, is this idea of "objectivity, that you - the scholar - are supposed to keep a nice distance from your subject matter and not infect it with your own prejudices or biases or longings or beliefs and to see it clearly and objectively as it really is. And that's one of the reasons I've never done a University degree in anything because I just don't like that environment, I don't want to separate myself in that way, I don't want that existential distance. To me the engagement with these texts and I'm mainly talking of early Pali and also some Chán texts in Chinese, is that I want to enter into a living dialogue with these texts I want to gain a sense that these texts are actually addressing my condition and they are speaking to me, they are actually challenging me in some way that they're challenging me to change the way I think I live, and if I try to put those injunctions into practice when I return to the texts they've changed. To me the beauty of these very simple things, these Four Noble Truths for example, is that you can keep going back to them and you can keep recovering deeper layers of insight because they are an integral part of your practice. If you didn't seek to transform yourself in terms of what these texts are saying, then they would probably remain more or less static, they would just be objects of philological interest, but I'm not willing to relate to them in that way, my approach is unashamedly subjective, I'm interested in how these texts can address and change a human life and so I find that my practice, let's say when I'm on a meditation retreat, when I try to cultivate the concentration or mindfulness and so on, that is an integral part of an ongoing dialogue or conversation with a tradition that is mediated to me through text. I'm obviously an "intellectual kind of guy", I don't want to pretend otherwise, and I feel often quite disappointed when Buddhist groups kind of have a default anti-intellectual stance, where people would say "I'm not interested in theory, I just want to do the practice". One of the things that brought that home to me many years ago is when I was studying in Switzerland in a Tibetan Monastery and we were being taught by an old Mongolian Lama and we were studying something which was incredibly dry, the Buddhist logic - I can tell you that was pretty dreary stuff, syllogism and how syllogism functions - and at the end of the course one of the students said "Geshe-la, why do we have to study all this Theory, why can't we do more practice?" and his answer was "If you really knew how to study you would be practicing" and that's remained with me as a real beacon of insight. To me study is practice. Practice is not reducible to something purely non-verbal or non intellectual. If you think about the word practice ("bhavana" would be the closest word in Pali), the whole of the Eightfold path is to be put into practice, cultivated, brought into being, realised. It is not a question of narrowing practice to one thing and then setting other parts of your life in opposition to it. It's a question of how can we extend the concept to practice, to infuse and embrace all aspects of our life so that our whole life becomes a practice. We've become practicing humans. Being Human becomes our practice.>> (ITA only) Immagina di avere davanti queste foto: Albe o tramonti? (Valtellina - Dicembre 2018) Nessuna indicazione dell'ora, di un punto cardinale o di un riferimento geografico.
Difficile dire se siano testimonianze di un'alba o di un tramonto: stessi colori, stessa nostalgia mista ad entusiasmo, stessa voglia di emozioni. Solo la transizione di quegli istanti aiuterebbe a identificare di quale si tratti: l'una si accende, l'altro si spegne. L'una abbandona il buio per accendere un nuovo giorno, l'altro si infiamma per l'ultima volta, per poi morire, come un tizzone senza piú molto da dare. Pur non amando i festeggiamenti di fine anno, o perlomeno come vengono interpretati nel mondo moderno in cui sono nato, ne capisco la necessità che avvertiamo. Il ciclo naturale di tutte le cose (il ripetersi delle stagioni, la successione di albe e tramonti, la nascita e la morte degli esseri viventi, la formazione e lo scioglimento dei ghiacciai e così via) ci ha abituato a celebrare l'inizio e la fine dei fenomeni, ed è affascinante prendersi una notte per brindare al tramonto dell'anno vecchio e all'alba di quello nuovo. Tuttavia, molti di noi vivono questa festa come un'archiviazione dell'anno passato, che viene accatastato sulla polverosa e considerevole pigna di quelli precedenti, per dare il via a quello nuovo, riempito di buone parole e propositi, pronti da archiviare di nuovo quando ripasseremo in questo punto dell'orbita terrestre, tra poco meno di 400 giorni. Quella che vedo, invece, è la necessità di riportare la celebrazione di questa notte sullo scorrimento naturale verso un semplice nuovo giorno, che, solo per convenzione calendariale, porta un significato diverso dagli altri. Paradossalmente, diamo meno importanza a fenomeni ben più eclatanti a livello astronomico ed energetico, come gli equinozi e i solstizi, tanto che spesso ce ne dimentichiamo, senza il chiasso dei petardi e le urla ubriache di chi ha affogato nelle gozzoviglie la propria consapevolezza. In tedesco, per augurare un buon anno, si dice "Guten Rutsch", che letteralmente sarebbe come augurare una dolce "scivolata" nell'anno nuovo. Mi piace l'idea di uno slittino che possa solo avanzare e che lo faccia in maniera poco brusca. Nessun bambino in questa situazione si preoccuperebbe di dividere in "segmenti" belli o brutti la parte percorsa a monte o quella in arrivo a valle, visto che la concentrazione sarebbe tutta dedicata al momento presente, sullo scivolamento dello slittino lungo il pendio. Guai a distogliere l'attenzione: perderemmo controllo e divertimento! É questo l'augurio a cui sento di ispirarmi e che desidero rivolgere a voi. Scivolate bene nel nuovo anno ma anche in ogni prossimo nuovo giorno, che sia un 30 dicembre o un 2 gennaio. Per osservare un'alba o un tramonto bisogna essere nel posto giusto al momento giusto, rimanere vigili e attenti, per poi lasciare scappare quel momento effimero con lo stesso entusiasmo con cui l'abbiamo accolto. Tutto scorre in questa vita, e voi non siate da meno. |
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